Tanto si è scritto di giusto e di sbagliato sul Cane Corso e tanto si continuerà a scrivere. Noi limitiamoci ai dati di fatto. Il Cane Corso deriva, come il Mastino Napoletano ed in parte il Mastino Abruzzese, dal mitico Canis Pugnax, il Molosso che dagli antichi romani venne utilizzato, diffuso in tutta Europa (ed in parte in Asia ed Africa, nei territori facenti parti dell’Impero Romano) e che così tanto diede a molte razze canine. Torniamo invece “a bomba”, come si sul dire, o meglio “a cane”. Durante l’Impero Romano a Capua(Campania) esistevano le principali “scuole” ove persone di tutto il mondo conosciuto si allenavano per diventare Gladiatori; parallelamente esistevano allevamenti di cani da guerra e da combattimento (arena) da cui i cani venivano “esportati” in tutto l’Impero. Erano i Canis Pugnax scolpiti nel marmo e dipinti negli affreschi del tempo; erano i Cave Canem dei mosaici di Pompei; erano i cani da guardia delle ville patrizie.
I cani da guardia alle grandi ville (Pugnaces) erano particolarmente temuti per la loro grande aggressività. All’ingresso della villa bastava la targa con scritto “Cave Canem” per scoraggiare qualsiasi malandrino.
Anche il colore degli occhi aveva la sua importanza. Veniva privilegiato il color giallo anche se i più terrificanti erano quelli color argento. Bastava lo sguardo di questi cani ad incutere timore ai furfanti e a farli desistere.
Il suo peso doveva essere sufficientemente pesante per bloccare e non essere sollevato dall’avversario ed i reni potenti per mettere la vittima a terra dopo avere assicurato bene la presa.
Questi cani molto allenati sapevano che se lasciavano prende, si esponevano delle grave ferite, come se attaccavano a un punto invalido, la sanzione cadeva immediatamente. Le orecchie e la coda tagliate offrivano
poco presa all’avversario, il suo collo possedeva un strato adiposo molto abbondante e non aderente al muscolo in modo tale che i morsi di bestie feroci o dei cinghiali scivolavano sull’epidermide senza raggiungere gli organi vitali. Venivano utilizzati per la caccia al cinghiale, al lupo, all’orso nonchè al cervo e agli atri grossi ungulati nelle battute di caccia con le reti.
La sua testa molto bene costruita per la presa aveva delle caratteristiche che consentivano a sostenere una buona respirazione durante il movimento.
L’iconografia vista sopra permette di mettere di identificare un corpo massiccio e robusto associato ad una canna nasale piuttosto lunga per una migliore ventilazione, un cranio grosso e piuttosto piatto, e dei denti duri e sviluppati, impiantati profondamente nell’osso, per sostenere una forte presa, con una forza muscolare necessaria a questo lavoro, caratteristiche ancestrale presente ancora oggi da certi molossi come i Cani da Presa Meridionali.
L’esercito della Roma Imperiale tenne in grande considerazione il cane; in particolare, il “procurator cinegeti” (o zooarco) selezionò in base alle qualità dimostrate nell’arena ed in battaglia, traendo così quel molosso che fu impiegato per diversi scopi, quali:
-
combattente in battaglia;
-
combattente nelle arene contro belve e gladiatori;
-
guardiano di edifici pubblici, di case e di ville patrizie;
-
ausiliario nella caccia grossa.
Il Molosso Romano, (Canis pugnax), pertanto, era un cane funzionalmente completo e nelle terre conquistate dalle Legioni Romane di cui era al seguito, dette origine a cani che poi vennero utilizzati per funzioni similari: ad esempio, in Spagna originò il Perro da presa spagnolo e in Francia il Dogue de Bordeaux.
Il Molosso da guerra fu un efficace strumento di morte; molto aggressivo, bardato con un collare irto di punte di ferro, fu addestrato ad attaccare il nemico e ad ucciderlo azzannandolo alla gola.
Per ottenere una simile “macchina bellica”, i Romani utilizzarono il materiale genetico del luogo, quello del “lupo nella sua forma addomesticata” il cui modo di fare si avvicinava alla loro indole: come loro combatteva per la conquista del territorio, come loro razziava e uccideva. La storia evidenzia la parentela simbolica tra i lupi ed alcuni popoli guerrieri: ad esempio, nella penisola italica la tribù dei Lucani traeva il proprio nome da “Aukol”, ovvero dal lupo. La leggenda della fondazione di Roma assunse la forma che conosciamo solo in tarda epoca, quando ormai i Romani avevano esteso la loro egemonia su tutta la penisola; non abbandonando l’originaria similitudine comportamentale, essi scelsero il canide selvaggio, “la lupa”, come animale totemico. A simbolo di coraggio e dell’Urbe, ne fecero campeggiare l’immagine sulle insegne dei legionari. A questa popolazione di partenza di estrazione lupoide, man mano si affiancavano nella selezione soggetti di morfologia diversa, taglia e tempra maggiore pelo raso e caratteristiche che oggi definiremo “molossoidi” e che arrivavano nell’Impero e nei primi centri di allevamento (in particolare a Capua, vera e propria “fabbrica” di mezzi, animali e uomini “da guerra e arena”) a seguito di attività commerciali e conquiste da territori stranieri piuttosto che da individuazione e recupero nei territori locali, in particolare in Campania Felix, dove alcuni esemplari di questo tipo vivevano già probabilmente importati dai Fenici e quindi allevati dagli etruschi.
Il coraggio, la forza e il temperamento di questi cani “Bellator” o “Pugnator” o “Pugnaces” (come lo storico greco Stradone chiama i cani che combattono) che combattevano al fianco dei soldati, che ne vegliavano il sonno e che, debitamente addestrati, erano impiegati anche nelle comunicazioni, stupivano i Legionari Romani che li consideravano sempre più indispensabili ausili in battaglia, cosìccome i “domini factionum”, allevatori e impresari, che li selezionavano e preparavano per affiancarli alle fiere e ai gladiatori nelle esibizioni pubbliche sempre più richieste (i “Ludi Gladiatori”) e per le quali ricevevano lauti compensi.Questi cani presentavano caratteristiche morfologiche e attitudinali peculiari e furono genericamente definiti “molossi” per analogia con il “Molosso” dell’Epiro, notoriamente combattente senza uguali e il cui sangue sicuramente contribuì all’epoca nella selezione del tipo.
Gli antichi documenti fanno risalire l’inizio dell’impiego dei cani in battaglia a più di tremila anni fa (vedremo in seguito come questo impiego sia continuato fino all’età contemporanea e come i cani vengano ancor oggi utilizzati in azioni militari anche se, per fortuna, con compiti ausiliari e non di attacco).
Inquadrati in piccoli gruppi di combattimento, nelle azioni belliche i cani venivano impiegati in gran numero; erano anche utilizzati come coraggiosi scudieri e guardia spalle per sostenere l’azione di un singolo cavaliere. Essi, pertanto, sono stati da sempre e inevitabilmente coinvolti nelle guerre; del resto gli antichi Molossi furono creati quasi esclusivamente per questo scopo.
Plinio il Vecchio riporta che i cani “erano gli ausiliari più fedeli e più economici”. Nel 231 A.C. con il loro aiuto i legionari di M. Pomponio Matone risolsero il problema dei Peliti in Sardegna ( i “Mastini Fonnesi” sono i discendenti di questi cani). Tre secoli prima di Cristo, Alessandro Magno utilizzava i Molossi nelle battaglie campali per seminare il panico tra i ranghi nemici. Fu così che “Periles”, il suo Molosso favorito, morì combattendo.
Un altro compito del Molosso presso diversi popoli antichi, fu quello di giustiziare i nemici od i colpevoli di particolari reati che venivano buttati in fosse dove i cani, tenuti affamati, li sbranavano. L’espressione “gettato in pasto ai cani” discende appunto da questa cruente e terribile pratica. Macabra, ma efficace usanza, era quella di procurare tal tipo di cibo ai cani al fine di far loro superare la paura dell’uomo e di aumentarne l’istinto predatorio.
Non possiamo nascondere il turbamento emotivo che ci assale nel descrivere pratiche che la coscienza dell’uomo del 2000 non può che giudicare terribili, cruente e condannabili senza riserve. Questo è comunque ciò che accadeva a quei tempi; noi, da semplici e modesti cronisti, lo abbiamo solo riportato attingendo da fonti storiche. L’interpretazione e la valutazione degli accadimenti del passato, comunque, non può prescindere dall’analisi del contesto socio-culturale-politico dell’epoca storica a cui ci si riferisce (e questo è un principio universalmente riconosciuto dagli studiosi).
Molti imperatori Romani sono rimasti famosi per la crudeltà con cui facevano svolgere i giochi circensi. Negli anfiteatri romani, durante i “ludi gladiatori”, si affrontavano in combattimenti all’ultimo sangue belve, molossi e gladiatori. Migliaia di orsi furono catturati ed impiegati nelle arene. L’imperatore Caligola, nel I° secolo D.C. organizzò un feroce combattimento che vide opporsi a ben 400 orsi un manipolo di gladiatori affiancati dai loro cani. Strabone scrive che per fronteggiare un leone occorrevano quattro molossi.
Le doti di combattente del molosso emergevano anche negli spettacoli di tauromachia in cui i tori combattevano fra di loro, contro altri animali od anche contro gli uomini. Diffuse in tutta l’area mediterranea, a Roma alle “cacce” (venationes) taurine era destinato il Theatrum Tauri.
Esse ripresero in ere successive alla caduta dell’Impero come ci testimoniano anche il Belli, in un sonetto del 25 novembre 1831 (la giostra a Gorèa) “Che accidente de toro! D’otto cani a cinque j’ha ccacciato le budella, e ll’antri l’ha schizzati un mìjo lontani”, il Pinelli nelle sue incisioni, e secondo quanto si legge in una locandina del settembre 1819 in cui si mette in palio un premio “per quel cane che, da solo a solo orecchiandolo, lo terrà intieramente fermo” (M. Verdone: Feste e spettacoli a Roma).
Ritornando agli spettacoli circensi dell’antica Roma, un’altra testimonianza storica la si rileva da “Vita e costumi dei Romani Antichi” – Danila Mancioli – Collana promossa dal Museo della Civiltà Romana, in cui si dice: “C’erano poi le lotte fra uomini e animali, durante le quali, in genere, erano questi ultimi a soccombere; i ‘venatores’ o i ‘bestiari’, che venivano addestrati in scuole simili a quelle dei gladiatori, ma a differenza di questi ultimi non erano tenuti in gran considerazione dagli spettatori, vestivano una corta tunica con maniche, portavano fasce alle gambe, avevano come armi da offesa una lancia a punta larga e una frusta di cuoio, erano spesso accompagnati da una muta di cani”.
La studiosa cita anche un curioso episodio legato all’esosità dei “domini factionum” che amministravano l’organizzazione degli spettacoli, esercitando un vero e proprio monopolio, e a cui potevano rivolgersi i promotori dei ludi:
“Per avere un’idea della loro esosità si cita il curioso episodio che ebbe protagonista Aulo Fabrizio, pretore sotto Nerone, che tentò di contrastare le eccessive richieste di queste società presentando in pista carri trainati da cani precedentemente addestrati; in tal modo costrinse a più miti pretese le richieste dei domini factionum.” L’autrice non dice di che cani si trattasse; potremmo ipotizzare, dato il peso dei carri e della forza necessaria a trainarli, che potevano essere molossi.
I Romani impiegarono diffusamente i cani da guardia negli edifici pubblici e nelle case private (specie in quelle patrizie). Erano tenuti per tutto il giorno legati alla catena entro una nicchia all’ingresso dell’edificio e di notte venivano liberati. Spesso la loro aggressività provocò incidenti tali da richiedere l’istituzione di apposite leggi. Da ciò prese origine la consuetudine di sostituire in molti casi la presenza del cane con un suo simulacro recante la nota iscrizione “Cave canem”.
A seguito dei movimenti di conquista delle legioni romane, il Molosso contribuì alla formazione di altri cani che ora fanno parte d’altre razze europee, quali il Komondor, l’Old English Mastiff, il San Bernardo, il cane dei Pirenei, il Bovaro Svizzero ecc. ecc. .
Anche per la caccia i figli di Romolo ci hanno tramandato il loro modo di selezionarli.
Agli appassionati del Molosso è noto il complesso statuario della Fontana di Diana e Atteone nel parco antistante la Reggia di Caserta; forse un po’ meno nota è la leggenda secondo cui Atteone, avendo sorpreso la Dea che si bagnava, la fece infuriare e fu da lei trasformato in cervo e divorato dai suoi stessi cani.
L’arma più vitale del cacciatore era il giavellotto (nella versione anche a punta biforcuta), il coltello e la fionda; il suo compagno più prezioso era, al solito, il cane. I Romani sono stati i primi a classificare i cani secondo il loro impiego nella caccia:
-
Seguges: (segugi) che grazie al sensibilissimo olfatto seguivano le tracce della selvaggina;
-
Celeres: (levrieri) che la inseguivano velocemente;
-
Pugnaces: (molossoidi) che l’attaccavano.
Quanto grande fosse l’amore per i cani lo dimostra un epigramma di Marziale: “Allevata in mezzo agli addestratori degli anfiteatri, cacciatrice feroce nelle foreste, dolce in casa; mi chiamavo Lidia, fedelissima a destro, (…….) non mi uccisero né i lunghi giorni né l’inutile vecchiaia, come toccò ad Argo, il cane di Ulisse Itacese, mi uccise la rapida zanna di un cinghiale bavoso, grande come il cinghiale di Calidono o quello d’Erimanto. Giovane giunsi alle ombre infernali, ma non provo rancore. Non avrei potuto morire di una sorte migliore”.
La caccia preferita dai romani antichi era condotta attraverso grandi “battute”, possibilmente a cavallo se il terreno lo permetteva: i Molossi, una volta circondata la preda, scovata dai “seguges” ed inseguita dai “celeres”, le venivano aizzati contro e la bloccavano fino all’arrivo dei cacciatori che, richiamati i cani, per dimostrare il loro coraggio l’affrontavano con il giavellotto (o anche con la daga) da distanza ravvicinata.
La diffusione della caccia è documentata
ampiamente nei sarcofagi scolpiti con scene mitologiche che, dall’età di Adriano in poi, diventarono monumenti funebri pregiati per i romani più benestanti. Il simbolismo delle decorazioni sta a significare l’analogia del successo nella caccia con la vittoria in guerra e con il trionfo sulla morte.
Per i Romani il cane costituiva una vera e propria “forza lavoro” insostituibile specie nella pastorizia, uno dei fondamenti della loro economia. Il “Canis Pastoricus” era allevato con grande cura. Virgilio raccomandava una dieta a base di siero di latte e di spuntargli la coda e soprattutto le orecchie per proteggerli dai morsi dei lupi e delle volpi. Varrone, da parte sua, parlando del cane da gregge dice: “…. caratterizzato da una corporatura intermedia tra il “Canis Venaticus” leggero ed agile ed il “Canis Villaticus” imponente e muscoloso (il molosso). Lucio Giulio Columella così scriveva secoli fa: “ Come custode della corte bisogna scegliere un cane grande e forte che abbia una voce squillante e profonda …. Deve essere unicolore e cioè bianco se viene adoperato nella custodia del gregge, nero se della custodia della casa, variopinto o macchiato, tigrato se adoperato per l’una o per l’altra cosa …”. Il cane da gregge fu prodotto dall’incrocio tra il feroce cane dei legionari ed alcune razze da pastore locali di tipo lupoide (anche levrieroide); è così che lo ritroviamo nel mastino abruzzese, nel mastino siciliano o cane da mannera, nel mastino silano e in quello fonnese. Questo tipo di cane (ricordiamolo: è sempre un molossoide e quindi non stiamo divagando) fu selezionato secondo un’assoluta assenza di istinto predatorio nei confronti del gregge, pur mantenendo un’elevata aggressività e combattività contro i predatori.
Quando, cioè, occorreva combattere il “lupo” e difendere il gregge, i romani gli contrapposero “il lupo domestico”, quando occorreva una combattività rivolta a scopi di altro genere impiegarono “il Pugnaces”.
L’ambiente che originò il Molosso Romano
Prima di passare “al Medioevo”, per completezza informativa concludiamo questo capitolo riportando anche che alcune ricerche condotte di recente da alcuni studiosi, rimettono in gioco quanto ipotizzato in precedenza sull’origine del molosso dal mastino tibetano (fino ad ora ritenuto da alcuni il “padre” di tutti i molossi odierni). Detti studi conducono all’ipotesi secondo cui i cani raffigurati sulle famose tavole di Ninive (2.500 – 2.000 a.C.) siano gli antenati dei Karabash attuali che esistevano già molto tempo prima di quei cani utilizzati in Anatolia ed in Mesopotania da Babilonesi ed Assiri e la cui funzione, oltre che per la custodia del gregge, era per la caccia al lupo, all’orso ed all’onagro.
Dal Medioevo alla fine dell’Età Moderna
La tradizione ad impiegare i cani come ausiliari nelle imprese militari continuò dopo la caduta dell’Impero Romano per tutto il Medioevo ed il Rinascimento, anche se in quest’ultimo periodo storico prevalse l’utilizzo dei Molossi come “cani da presa” nelle gigantesche battute di caccia all’orso, al cinghiale ed al lupo (vedi: “La caccia” nella sezione “Piccolo mondo antico”).
Nel Medioevo, cane e cavallo formarono l’identità del Cavaliere. Se si considera l’atteggiamento della cultura aristocratica e religiosa medioevale di prevalente disprezzo nei confronti del lavoro manuale e del commercio, le due sole attività da cui ci si poteva a quel tempo ricavare prestigio, ricchezza e potere erano la guerra e la caccia. Era pertanto indispensabile il permanente possesso di ampie scuderie e di mute di cani che dimostrassero particolare efficacia nella caccia (levrieri, molossi e segugi), nella guardia e nella difesa delle fortificazioni e, soprattutto, nei frequenti conflitti armati che ad ogni piè sospinto scoppiavano fra i Signori del tempo per il dominio sui territori. Il signore medioevale era proprietario di un elevatissimo numero di cani ma la loro cura era riservata, come doveri di vassalli, ai propri sudditi. Barnabò Visconti, ad esempio, possedeva circa 5.000 cani che erano affidati alla cura dei suoi sudditi e che, in tristi occasioni, erano impiegati anche per le esecuzioni di condanne a morte.
Al fianco del cavaliere figuravano sempre Molossi da combattimento, presenti in quasi tutti gli eserciti medioevali. Bardati di protezioni di cuoio rinforzate con lamelle metalliche, era loro affidato il risolutivo compito di assalitori: eccitati dalle grida di battaglia, si lanciavano sul nemico azzannando cavalli e cavalieri e scomponendo così la cavalleria nemica. Un trattato di arte militare, riporta che i cani erano opportunamente addestrati a tale scopo.
Nel Medioevo il legame con il cane da guerra e da guardia o da difesa fu particolarmente forte tanto è vero che il Clero prese più volte drastici provvedimenti al fine di impedire l’accesso in chiesa a questi animali da cui i cavalieri non volevano separarsi nemmeno durante le funzioni religiose.
Un altro ausilio alla conoscenza del nostro cane ci è fornito dall’Araldica.
Nel medioevo, nobili e cavalieri presero l’uso di dipingere sul proprio scudo un simbolo in grado di identificarli, poiché le pesanti armature rendevano difficile il riconoscersi durante le battaglie.
Nacquero così “i blasoni” (o stemmi gentilizi) che divennero veri e propri emblemi di famiglia; simboli e figure indicavano una virtù o una caratteristica peculiare del loro possessore. Il simbolismo, che certamente preferì animali con caratteristiche di forza, fierezza e dominanza (leoni, aquile, lupi), non poté dimenticare sui blasoni l’immagine del cane, che veniva riportata nelle forme di “bracco, veltro o levriero, corso e mastino”. L’immagine, a volte, “richiamava” il nome di una famiglia (“stemma parlante”) come, ad esempio, Bracconieri, Veltri, Corsi, Mastini,
E’ a partire dall’alto medioevo che le due denominazioni “mastino” e “corso” cominciano ad alternarsi nell’uso comune: più che per indicare una razza, i due termini venivano utilizzati per richiamare particolari qualità di fedeltà, audacia e tenacia, come si evince anche dal fatto storico che segue.
La resistenza che la città di Cagli (attualmente in provincia di Pesaro) fece a Federico II è descritta nella tradizione di Casa Mastini (a Cagli dal 1150 d.C.) in cui si narra che
“…mentre Federico stava col suo campo intorno a Cagli, un suo capitano allontanatosi alquanto fu assalito da gran turba di contadini dalle prossime montagne discesi, da cui, dopo gagliarda resistenza venne egli malamente ferito e da’ suoi soldati ancora abbandonato: onde, benché si trovasse infine libero dalla furia dei villani, ad ogni modo dalla copia di sangue che gli usciva dalle ferite, rimase per via giacente in terra più morto che vivo e non avendo chi gli desse aiuto un cane Mastino che seco avesse, lasciando il padrone se ne corse insanguinato nel campo, dove facendo dolorosi ululi e particolarmente avanti il padiglione dell’imperatore, questi diede ordine di osservare gli andamenti di quello e dietro lui si prendesse il cammino, il quale ritornando al luogo del suo padrone, lo fece quivi ritrovare quasi semivivo e così levato da terra venne poi condotto al campo, dove fu curato ed ebbe da Federico il dominio sopra gli stessi villani che l’avevano combattuto e sopra quei castelli, donde esse erano, imponendogli che da quel cane da cui aveva ricevuta la vita, prendesse il cognome e l’arme …..”
Fino alla fine dell’età Moderna la storia del Molosso Romano s’intreccia con le vicende storiche della nostra Penisola ed il suo impiego prevalente continua ad essere quello di valente ausiliario nelle azioni di guerra e nella caccia.
Nel meridione i sovrani Normanni, che governarono con abilità favorendo i commerci e lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, erano grandi appassionati di cani e cavalli ed amavano la caccia. La scelta di Federico II di stabilire il centro del suo comando nella regione costiera adriatica del Sud, fu certamente dettata da motivazioni di tipo polico-militare ma, d’altro canto, gli consentì di soddisfare la sua gran passione per la caccia, grazie alla variegata fauna che aveva trovato il suo habitat ideale in un armonioso alternarsi di monti e di colline, di boschi e di vaste pianure.
Dopo di lui, la stessa passione animò, specie in Sicilia, Carlo D’Angiò.
Nelle terre conquistate dalle Legioni Romane di cui era al seguito, il Molosso Romano aveva dato origine a cani che, ugualmente, furono utilizzati per la caccia e in guerra e che poi dettero origini ad altri cani quali, ad esempio, il Dogue de Bordeaux in Francia e il Perro da Presa in Spagna.
Furono verosimilmente discendenti del Molosso Romano importati dal Regno di Castiglia quei Mastini a cui nel 1494 Cristoforo Colombo fece ricorso contro gli Indios del Nuovo Mondo:
“E’ il 15 maggio 1494: la seconda spedizione di Cristòbal Colòn (Cristoforo Colombo) …. Qualche giorno prima aveva compiuto una carneficina di indios ostili, pressoché indifesi, utilizzando prima frecce di ferro scagliate con le balestre, poi feroci cani mastini d’assalto.”
“… il mondo seppe che catturasti schiavi indiani come pesci in trappola, nutristi mastini delle loro carni come scherzo spagnolo” (“Cristòbal Colòn : il sogno di un marinaio”, prosa di Duane Niatum e Salish Klallam).
Pizarro, non gli fu da meno e riportò che i suoi cani furono, come nell’antichità, alimentati anche di carne umana. Il domenicano spagnolo Bartolomé De Las Casas, che difese gli indigeni dalle barbarie dei “Conquistadores”, scrisse che questi cani avevano imparato a nutrirsi di carne umana.
Il Molosso Romano, ovvero Cane da Presa, Mastino napoletano, Cane Corso…..
Tornando al nostro Paese, la diffusione del Molosso Romano lungo tutta la penisola è documentata, oltre che da una ricchissima iconografia storica anche da numerose citazioni bibliografiche che lo riguardano, e che cominciano a documentare la presenza di due “varianti” (cane da pagliaio o corso e cane da corte o da presa) fra cui vogliamo citare:
• ‘Opus Maccaronicum’ di Teofilo Folengo (1552), ‘Historia Animalum’ del naturalista svizzero Konrad von Gesner (1516 – 1565); ‘Della Caccia’ (1591) di Erasmo di Valvason, ‘L’economia del Cittadino in Villa’ di V. Tanara (Bologna, 1644), ‘Catalogo della mostra Natura Viva in Casa Medici’
e, fra quelle non altrettanto antiche,:
• ‘Manuale di Veterinaria’ del 1826, compilato da Giulio Sandri Già (Ripetitore di Anatomia e Fisiologia, Incaricato dell’Amministrazione Farmaceutica, Supplente alla cattedra di Botanica nella Imp. Regia Scuola Veterinaria di Milano, ecc. ecc.): “ ….. il cane da pastore, quel da pagliaio, e quello da caccia. …… Il secondo fa guardia alla corte massimamente di notte proteggendola dai ladri e dalle bestie che vanno a ruba, come sono i lupi, le volpi, i martori ecc. Il migliore è corto, con testa troncata e grossa, gola enorme, gambe grosse, coda corta e anch’essa grossa, latrato sordo, breve, alto e spaventevole per atterrire da lungi. Se nero potrà meglio afferrare i malandrini senz’esserne veduto. Non sia vagabondo, né troppo dolce per non lasciarsi persuadere dai mali intenzionati, né troppo acre per non assalire gli stessi famigliari.”
• ‘Il Cane’, 1897; testo universitario del Prof. Errico Tecce (professore di zootecnia nella Regia Scuola Veterinaria di Napoli): “Ha l’espressione superba e orgogliosa: e si rivela in ogni caso assai affezionato al padrone, in guisa da esporre spesso la sua vita per garantire quella del suo signore. E’ detto cane di comando, e non obbedisce che al padrone. Quando questo glie l’ordina, attacca con ferocia insuperabile;assale, atterra, sbrana; tutto è compiuto in un batter d’occhio. A Napoli è il compagno inseparabile del camorrista, al quale accresce la fierezza nella spoliazione dell’innocente. Non è disadatto alla guardia della mandra, avendo l’abilità di restituire alla calma il toro stizzito; profitta del momento favorevole per addentarlo alla bocca, ed allora lo lascia, quando ha la certezza che l’animale infuriato ceda alle sue imposizioni. E’ un lottatore senza paura e senza biasimo, che si batte coll’assassino, col cane ordinario, col lupo, coll’orso e col toro, vero Ercole che, confidando nella forza propria, rifiuta e spregia l’agguato; attacca sempre di fronte e senza esitanza: atterra l’avversario e si contenta di tenerlo semplicemente inchiodato sul suolo, se il malcapitato non oppone nessuna resistenza. E’ generoso coi bambini e coi piccoli cani, non gli piace di attaccar brighe senza ragioni; ma se è provocato, guai all’imprudente, ché il dogue non lascia manomettere la sua dignità. Nella guardia alla casa, ai magazzini, alle merci, è il custode più fiero e più geloso, perché preferisce di morire prima che siano manomesse le sostanze affidate alla sua vigilanza”.
• Dizionario Italiano Melzi (1950): “Cane da pagliaio : quello ch’è il più adatto alla guardia di una casa rustica” ; “Cane da presa : quello grosso, robusto come il mastino e che serve per la caccia alle fiere”
Particolare impulso alla diffusione del molosso nel Sud d’Italia – dove la sua presenza si è sviluppata più che altrove grazie al perdurare degli appropriati presupposti ambientali e culturali – fu dato dalla Casa Reale Borbonica.
Il Regno delle Due Sicilie comprendeva gli antichi Regni di Napoli e di Sicilia e si articolava in Abruzzi, Contado del Molise, Terra di Lavoro (Sora, Aquino, Fondi, Napoli, Nola); Principato (Benevento, Nocera, Amalfi, Salerno, Policastro); Capitanata (Foggia, Lucera, Manfredonia); Principato di Bari; Principato di Taranto; Basilicata; Ducato di Calabria; Sicilia.
Fu in queste terre che il Molosso è stato mantenuto e conservato fino a noi grazie all’impiego pratico per il quale venne di volta in volta utilizzato.
Secondo una classificazione utilitaristica basata sulla funzione, il cane che noi conosciamo con il nome di Corso o “Cane da presa”, veniva definito con una serie di appellativi, che ne evidenziavano “le specializzazioni”, tra i quali: Cane da Pagliaio, Cane da Capraio, Cane da Macellaio (o da Beccaio oppure Vucciero o Bucciero), Dogo (o Cane da Caccia Grossa) e Cane da Combattimento.
In senso più generico, invece, nelle varie terre del Regno, assumeva i nomi di:
• Cors’ (Contado del Molise e Abruzzo);
• Cane ‘e presa (Terra di Lavoro);
• Cane della masseria (Puglia);
• Mastino da catena, Cane Corsicano (Basilicata);
• Cuòrsicu : Alta Lucania;
• Can’ Huzz : Cane Guzzo (Calabria);
• Corsu, Cane Guzzo, Vucciuriscu (Sicilia).
I Borboni scoprirono fin dall’inizio del loro Regno quel cane già largamente diffuso nelle terre del Sud; lo apprezzarono per la sua versatilità e, da grandi esperti e appassionati cacciatori quale erano, ne intuirono le capacità predatorie e lo impiegarono nelle emozionanti e spettacolari cacce alla grossa selvaggina che si svolgevano nelle molte tenute reali del Regno di Napoli (nell’entroterra napoletano, nel Beneventano, in Molise, in Lucania) e di Sicilia.
Ne fanno testimonianza diverse sculture (ad es.: Reggia di Caserta, fontana di Diana e Atteone; Castel Nuovo Napoli: rilievi Arco di Trionfo) e molti quadri dell’epoca in cui il Cane Corso, oltre che in azioni di caccia (ad es.: J. P. Hackert: caccia al cinghiale di Ferdinando IV), è a volte rappresentato anche “a Corte” (Angelica Kauffmann: Ritratto della Famiglia Reale di Napoli).
Come già accennato quando si è parlato del suo impiego nell’Antica Roma, le doti di combattente del Molosso vennero messe in evidenza anche negli spettacoli di tauromachia.
In un antico testo dell’Abruzzo, è riportato che agli inizi del 1800 chi si fosse recato sulle colline circostanti Pescara avrebbe potuto assistere, ed esserne coinvolto, ad una caccia al toro o a uno “steccato di tori indomiti”, come allora si diceva per indicare uno degli spettacoli più popolari dell’Italia centromeridionale, che costituiva il clou di feste ed avvenimenti.
Al riguardo si veda L. Lopez “Pescara, dalla vestina Aterno al 1815” (L’Aquila 1983) e L. Marchesani “Storia di Vasto, città in Abruzzo Citeriore” (Napoli 1837) dove si legge:
“La caccia al toro, avanzo dei giochi Romani, è caduta in disuso da pochi anni: davasi nei larghi delle fontane di Palazzo e di Porta Palazzo, barricandosi le strade che vi si aprono. Robusti e coraggiosi cani corsi, che i nostri beccai e de’ vicini paesi, appendendosi alle orecchie del muggente inferocito animale, sforzavasi di fermarlo. Un premio si dava al padrone di quel cane, che nella pericolosa impresa di arrestare per l’orecchio il defaticato corteggiante toro, riusciva”
E ancora, in “Pescara, gli abitanti e due giochi singolari”:
“Sulla costa è la prima piattaforma del Regno di Napoli. …… gli abitanti di Pescara ….. sono molto appassionati per i combattimenti di tori e di cani e non c’è festa senza questo divertimento. …. Questo divertimento di far combattere i cani contro un toro infuriato presenta pericolo. Non ho mai assistito ad un incontro del genere durante il quale non sia accaduta qualche disgrazia e per di più il teatro di questo gioco è la piazza pubblica. L’animale eccitato da un’infinità di oggetti, che necessariamente provocano la sua collera, come pungoli, petardi ed altri artifici che gli vengono attaccati alla coda, si avanza già infuriato al centro di una plebaglia da cui nulla lo separa, trattenuto solo da una corda che, legata da un corpo alle corna è affidata dall’altro quasi sempre ad un uomo solo. A questo punto gli vengono lanciati contro cinque o sei grossi cani corsi che lo azzannano sul collo e sugli orecchi e che, dopo molte difficoltà riescono a fiaccargli i garretti e ad abbassargli la testa. Allora tra muggiti di rabbia e di disperazione, un macellaio, elegantemente vestito, assesta il colpo mortale e mette fine a tutto. Questi cani erano molto richiesti e valorizzati dai beccai e da tutti quelli che avevano a che fare con i bovini”.
Al Regno Borbonico pose fine la spedizione garibaldina del 1860 cui seguì l’annessione al Regno d’Italia. Tra il 1861 ed il 1870, però, in vaste aree del Meridione deluso dal mito risorgimentalista, oberato da nuove tasse che avrebbero dovuto risanare le casse Savoiarde ormai al verde per le spese belliche, intollerante alla soppressione violenta del Regno Borbonico, centinaia e centinaia di bande partigiane insorsero. L’Esercito Piemontese stentò a piegare quello che con un termine infelice, inappropriato e propagandistico (in quanto intenzionalmente inteso a far passare i resistenti per delinquenti comuni) fu chiamato “Brigantaggio meridionale”. Più giustamente, si deve parlare di vera e propria guerra “di liberazione” contro gli occupanti Piemontesi (che dovettero impiegare più di 125.000 uomini e ve ne persero più che in tutte e tre le guerre d’Indipendenza) condotta dai “cafoni” insorti.
Ai “Briganti” si affiancarono due validi ed indispensabili “amici”: il Cane da presa ed il robusto e resistente Cavallo Murgese. Nel Molise e nelle regioni limitrofe, ad esempio, intorno al 1865-1870 un piccolo esercito di briganti capeggiati da Cascione (soprannome del capo banda perché grande e grosso come un armadio) e da Vulpiano (soprannome del suo braccio destro perché furbo come una volpe) in groppa a cavalli murgesi e con i terribili cani che facevano loro da guardaspalle, mise in difficoltà la cavalleria savoiarda.
Anche dopo l’annessione al Regno d’Italia, comunque, i notabili del tempo (Conti, Marchesi, …. , grandi proprietari terrieri) continuarono le loro tradizioni feudatarie specie nelle regioni del meridione.
Oltre che per la caccia, i Marchesi (i nobili più diffusi nel Sud) utilizzavano il Molosso per la guardia delle loro ville e delle loro tenute. Gli esemplari utilizzati per la guardia attaccavano chiunque varcasse il territorio loro assegnato; qualche soggetto era particolarmente feroce ma anche se feriva o ammazzava altri animali che entravano nelle proprietà o se, al seguito del marchese a cavallo, attaccava un altro animale (cani, tori, verri, buoi, …) nessuno osava fargli del male perché era il “Corso del Marchese ”.
Per gli accoppiamenti – decisi dal Marchese in quanto era il solo a conoscerne la genetica e le caratteristiche funzionali perché tramandatagli dalla sua famiglia – i soggetti venivano spostati anche da una tenuta all’altra e si usava trasportarli o in apposite gabbie fatte fare su misura, oppure al passo dopo aver avuto la cura di legare al collare di cuoio due catene che, pur rendendogli agevole il movimento della testa, evitavano al cane di mordere qualche imprudente.
Continuando cronologicamente la storia del nostro Cane, nel 1914 a Milano, in occasione di un’esposizione canina, il Sign. Mario Monti di Bagnocavallo, presentò al giudice Fabio Caielli un soggetto di Molosso Italiano di nome Drago. In quell’occasione il giudice rifiutò di esprimere il suo giudizio affermando che la razza non esisteva e che il Kennel Club non aveva emesso il relativo standard. Il Monti, allora, invitò il Caielli a prendere un biglietto circolare per Napoli e a fermarsi a Bologna, Firenze, Pisa, Livorno, Grosseto, Civitavecchia, Roma, dove, in misura sempre più crescente, avrebbe visto Cani Corso presso privati e guardie notturne. Ne avrebbe poi visti in maggior numero a Napoli, Foggia, Benevento, Barletta e Bari, sia in ambito cittadino che nei dintorni e presso qualunque ceto sociale. Ne nacque una polemica piuttosto vivace, tanto che il Monti scrisse su “Il Cacciatore Italiano” per sostenere che, desiderando essere il primo a presentare in Italia un esemplare di “Cane Poliziotto” e non volendo ricorrere a cani di razza straniera, aveva indagato “…. se in Italia vi erano razze di cani che efficacemente disimpegnavano le mansioni di custodia di beni e di vigilanza di persone e nel contempo siano di bella apparenza ed atti a sopportare eventuali avversità di ambienti. La mia ragionata predilezione, s’è trasformata una volta venutone in possesso grazie alla cortesia di un’eletta persona di nobile casato napoletano, in passione perché la terra e gli uomini che hanno avuto in questo cane rispettivamente il figlio e il compagno hanno trasferito in lui mille ardori e mille virtù.”
Ancora una volta, quanto detto testimonia che, ancora in quell’epoca, il Molosso Romano (Cane Corso, Cane ‘e presa, Mastino Napoletano) era diffuso in Italia anche se, più ampiamente, nelle regioni del Sud.
Le guerre mondiali del ’14-18 e del ’40 sicuramente diedero un colpo mortale alla diffusione e allevamento del nostro Molosso, in particolare alle varianti più pesanti “da corte”, da catena, più impegnative in termini di mantenimento e impiego rispetto alle varianti più leggere e utilitaristiche maggiormente disperse nelle campagne, ma il sangue di questi animali, antichissimo e che era già stato in gradi di resistere nei secoli guerre, dominazioni e carestie, anche questa volta riuscì a sopravvivere e ad interessare alcuni cinofili napoletani che riuscirono a radunare 8 esemplari da presentare, per la prima volta, all’esposizione canina di Napoli del 1946. Esposizione nella quale furono notati da un giovane cinofilo svizzero, Pietro Scanziani, che raccontò l’emozione di quel momento in un racconto che rappresenta ancora oggi forse la più bella descrizione mai scritta della scoperta e dell’innamoramento del Molosso Romano da parte di un allevatore. In quel momento, in quell’incontro, in quelli sguardi che si incrociano, nasceva il Mastino Napoletano inteso come “razza”.
caspita, che bel pezzo scritto con passione!
Che grande passione … Complimenti e grazie per aver messo a disposizione il tuo sapere
Fanno parte della mia famiglia tre bravissimi cani corso, contentissimo della razza, molto coccoloni.