Specie in Puglia e nel Basso Molise, ancora oggi non è infrequente sentire qualche persona anziana riferirsi al Cane Corso chiamandolo “il cane della masseria”. Nella realtà questo appellativo deve essere inteso in modo generico, nel senso che le molteplici e differenti attività che venivano svolte nella masseria nell’ambito di indirizzi produttivi a volte anche molto diversificati, richiedevano ai cani capacità che non sempre erano possedute – nella misura richiesta – da una sola razza.
In una masseria tipica, pertanto, venivano impiegati cani di razze diverse (e/o di “differenti ceppi di una stessa razza”) secondo criteri basati sulla conoscenza delle più dominanti potenzialità di ogni razza, di ogni ceppo o, addirittura, di ogni singolo cane. In base alle sue caratteristiche, cioè, ad ogni cane veniva assegnato un compito ben specifico e cani di differenti razze venivano utilizzati insieme in quelle attività in cui la sinergia fra le “diverse specializzazioni” era essenziale per il raggiungimento dell’obbiettivo.
Nell’economia agricola della civiltà contadina il ruolo della masseria era fondamentale ed essa era una vera e propria azienda con mezzi di produzione, di gestione e di sostentamento quasi sempre del tutto autonomi. Normalmente le masserie erano ben differenziate negli indirizzi produttivi per cui avevano ragion d’essere [zootecnia (bovini/suini/ovini/equini), cerealicoltura, agricoltura, ..], ma vi si coltivava e allevava anche tutto ciò che potesse garantire la predetta autonomia di produzione, di gestione e di sostentamento. Per un contesto così variegato sono pertanto evidenti le ragioni per cui si ricorreva all’ausilio di cani da lavoro con caratteristiche ben diversificate. Le attività lavorative nelle masserie si inserivano nel millenario rapporto uomo-animale-lavoro. Animali da lavoro erano gli equini (cavalli, asini, muli), i bovini e i cani. Se il cane ha lavorato da sempre “insieme” all’uomo, i bovini e gli equini hanno lavorato da sempre “per” l’uomo. Nella masseria il lavoro riservato all’uomo era svolto dai “gualani” (o vaccai), dai contadini, dai mulattieri, dai cavallari, dai pastori, dal “ciucciaro”, dal massaro. L’assegnazione dei compiti non era però tale da esimere alcuno dal contribuire a tutte le necessità lavorative che la conduzione della masseria richiedeva e così, nonostante le singole “specializzazioni”, ognuno era impiegato secondo necessità. Anche i cani erano utilizzati secondo lo stesso principio ed erano per lo più costituiti da Cani Corso, Mastini, Volpini e Levrieri meridionali. I Corso erano di aiuto ai “gualani” nel tenere sotto controllo i bovini sia quando questi erano “al lavoro” sia, a fine giornata, durante il pascolo nei valloni e nel rientro alla stalla dove potevano tranquillamente ruminare.
Per il traino “veloce” veniva normalmente utilizzato il cavallo. Nelle strade accidentate e dove si richiedeva una maggiore resistenza gli veniva preferito il mulo, meno nervoso e meno incline a quegli scarti improvvisi che potevano provocare il ribaltamento del carro. Lavoratori instancabili, rudi, fortissimi, e con minori esigenze alimentari di ricovero e di governo, a volte però reagivano agli stimoli del mulattiere con morsi e calci; in queste occasioni interveniva il Cane Corso che era temuto dai muli più di quanto lo fosse il mulattiere. I mulattieri distinguevano questi cani in “Corso gentile” e in “Corso”: quello “gentile” aveva la pelle delle labbra più sottile e delicata e, in caso di combattimento, era più soggetto a ferirsi.
Per la riproduzione degli equini c’era il controllo dell’uomo e nelle “monte a mano” gli accoppiamenti erano regolati dal palafreniere che era sempre accompagnato dai piccoli cani volpini per tenere lontano i topi della stalla ed evitare che gli equini si imbizzarrissero. I servizi di sorveglianza erano affidati a un guardiano che, armato del “dduie botte” (il fucile da caccia a due canne) corredato dalla “patruncine” (la cartucciera), girava a cavallo accompagnato da un robusto cane corso. Uno dei suoi compiti consisteva nel tener lontano dalle aree adibite alle varie colture tutti quegli animali che se ne volevano cibare: tassi, mustelidi, volpi, cani inselvatichiti, ecc. In questo “giro di ronda” era accompagnato da più di un cane e, all’occorrenza, dette aree si trasformavano in veri e propri campi di battaglia in quanto i “corsi” attaccavano qualsiasi animale si fosse intrufolato, limitando così le perdite all’imminente raccolto. I vigneti erano presi particolarmente di mira dalle volpi e, quando queste erano numerose, il guardiano organizzava vere e proprie battute di caccia utilizzando oltre ai “corso” anche i levrieri ed i segugi. I cani venivano slegati e aizzati ed il guardiano si limitava ad osservare la scena da un punto sopraelevato. Quando la volpe veniva scovata dai segugi o avvistata dai levrieri, aveva poche possibilità di fuga perché la caccia avveniva in branco: segugi e levrieri la inseguivano ed i “corso” le tagliavano la strada, la bloccavano e la sbranavano. Nei piccoli vigneti si insegnava al corso a percorrere una mezza circonferenza del vigneto mentre il guardiano percorreva l’altra metà per poi ritrovarsi insieme nel punto di partenza. Nei periodi in cui si effettuavano le arature, ogni mulattiere (o “cavallaro”) veniva accompagnato da un cane “volpino” che restava accanto alla “varda” (il basto) ed a guardia della bisaccia che conteneva il cibo del mulattiere (pane, formaggio o salsiccia, verdura ed una fiasca ricavata da una zucca che, essiccata e svuotata, conteneva vino) e la biada dei muli.
Il volpino teneva lontano topi, ratti e serpenti dalla bisaccia ed avvertiva il mulattiere dell’avvicinarsi di qualsiasi altra persona o animale. Nei periodi invernali i mulattieri andavano a “far legna”: la tagliavano, la caricavano sui muli e così la trasportavano alla masseria. Dove la morfologia del territorio lo consentiva, la legna veniva raccolta in zone, dette “spannature”, costituite dalle rive di confluenza di due corsi d’acqua dove si arenavano tronchi e rami. Prima della raccolta, i cani al seguito venivano aizzati per far sì che gli eventuali animali che vi erano nascosti scappassero. Non era difficile, in un simile ambiente, che i cani riuscissero a catturare anche qualche lontra; in tali occasioni essi erano subito richiamati per poter recuperare le setole della lontra che venivano vendute ai “sellai” per la decorazione dei finimenti dei cavalli. Nel rientro alla masseria, ogni mulo riusciva a trasportare sul basto più di un quintale di legna e, su un terreno impervio, non era raro che il mulo “prendesse la mano”, che cioè riuscisse a scappare; in queste occasioni si dimostrava l’utilità del “corso” che, gattonando, si avvicinava al mulo, ne afferrava la “capezza” (la briglia) e lo riconduceva dal mulattiere. Pericolosi nemici del raccolto (e quindi dell’economia della masseria) erano i topi e i ratti che, numerosissimi (in quanto dotati di eccezionale prolificità), riuscivano ad introdursi in ogni dove. Erano particolarmente dannosi nei granai. Particolarmente temuti erano anche le arvicole campestri, caratterizzate da un appetito insaziabile che provocava danni ingentissimi alle colture di cereali (di cui divoravano le parti più verdi e le cariossidi immature) oppure alle piante di melo (di cui decorticavano l’apparato radicale) ed i “topi quercini” che mordicchiavano ogni tipo di frutta o di semi. La piaga di questi roditori era combattuta con l’ausilio di trappole e dei cani volpini abilissimi nel catturarli. Una volta catturati venivano messi in un sacco e portati alla masseria dove, alla presenza del massaro, venivano prima contati e poi dati in pasto ai cani (corsi e mastini) per eliminarli e …… per evitare che “il cacciatore che li aveva portati”, a cui era riconosciuto il compenso di 2 soldi per ogni roditore, il giorno successivo riportasse le stesse prede. Nei granai erano particolarmente attivi i ratti neri e grigi (o surmolotti, le cui femmine generano fino a 20 piccoli ogni sei settimane). Il garzone della fattoria, armato di “caravascia” (una frusta fatta di spago intrecciato) ed accompagnato da un volpino e da un corso, entrava all’improvviso nel granaio e al buio tirava violente frustate che, oltre ad uccidere diversi roditori, provocavano con il loro rumore la fuga disordinata di altri ratti che venivano inseguiti, braccati e uccisi dal volpino e dal corso e poi dati in pasto a tutti i cani della masseria affinché, abituandosi a tale cibo, ne dessero poi la caccia in modo spontaneo.
Guardia e caccia, erano altri compiti dei cani della masseria. Per tale scopo erano utilizzate razze diverse: corso, volpino, mastino abruzzese, segugio e levriero meridionale: ciò costituiva allo stesso tempo un efficace sistema sia di allarme che di difesa. La caccia effettuata con i cani della masseria era indirizzata verso tutti gli animali selvatici ma soprattutto, come già detto, verso quelli che potevano arrecare danni alle coltivazioni ed agli animali allevati. Per la caccia alla lepre ed ai conigli selvatici, venivano utilizzati soprattutto il segugio ed il levriero meridionale. La caccia alla lepre – uno dei divertimenti preferiti dal massaro – era effettuata a cavallo: la lepre, oltre che ad essere abilissima nel far perdere le proprie tracce, è in grado di raggiungere punte di 70 km/h di velocità e per essa occorrevano cani scaltri e veloci come il segugio ed il levriero. Per il coniglio selvatico, la cui proverbialmente fecondità rendeva necessari drastici interventi per contenerne una numerosità che poteva rendersi nociva, i contadini, armati solo di un bastone, usavano il volpino. Battute di caccia venivano anche organizzate per prevenire gli ingenti danni che i cinghiali potevano arrecare alle colture. Le strategie e le tecniche venatorie impiegate si differenziavano da zona a zona ma, sempre, venivano impiegati corsi, segugi e levrieri. Oltre che a difendersi dai danni che questi suidi potevano arrecare alle colture, questa caccia assicurava anche una degna … conclusione culinaria.
Per la sorveglianza dei raccolti vi erano le guardie campestri che effettuavano il loro servizio di ronda accompagnati da cani corso. Durante il loro lavoro, improvvisavano, grazie alla presenza dei “corso”, anche battute al tasso la cui carne era molto gradita e la cui pelle veniva regalata ai contadini che ne usavano i peli come porta fortuna appendendoli al traino ed al portone di casa o come decorazione per le briglie del cavallo o per il collare di cuoio del cane corso: si riteneva che avessero un potere “magico contro la iettatura” anche se, in realtà, tali peli fungono in qualche modo da deterrente contro mosche e zanzare. Non di rado, la masseria confinava con grandi boschi che costituivano, per la gente del tempo, una naturale dispensa da cui poter attingere a piene mani. La fauna era variegata e ricercata e non era infrequente che i cani della masseria andassero da soli a caccia cibandosi di ciò che sempre riuscivano a catturare. Lotte particolarmente cruente venivano ingaggiate contro gli istrici e non di rado qualche cane non ritornava alla masseria in quanto, pur avendo ucciso la preda, moriva nel bosco per effetto delle ferite causategli dagli aculei. Nella macchia e nel bosco, senza pari nella lotta contro gli istrici era il cane corso. Li attaccava con una tecnica tutta sua, arrivando all’improvviso e cercando di azzannarlo al naso. Il riccio, invece, anche lui oggetto della caccia dei cani (che però dovevano sorprenderlo prima che si richiudesse su se stesso), sebbene dalla carne tenera e gustosa, veniva frequentemente protetto in quanto capace di sterminare insetti, lumache, topi ed altri animali nocivi. Se un cane veniva sorpreso nella caccia ad un riccio veniva subito richiamato ed il riccio veniva catturato e portato nella stalla o nel granaio della masseria. Ai cani, il pasto veniva somministrato all’imbrunire in un truogolo comune ed era costituito, il più delle volte, da crusca mista a siero e da pezzi di carne cotta di carnivori selvatici. Nel periodo delle nascite venivano date loro anche le placente. Ai cani era destinata anche la carne di animali di grossa mole (ad es. bovini), reperiti dopo morte accidentale e non eviscerati e dissanguati in tempo. In tutti i casi, in quell’habitat, il cibo dato dall’uomo era sempre integrato da quanto i cani riuscivano a procurarsi in modo autonomo (frutta e prede di varia natura)
Il calar della notte non poneva termine al lavoro dei cani: cominciava il loro “turno di guardia” a “tutta la masseria” che perlustravano presso le abitazioni, l’aia, la “grasceta” (terreno intorno al fabbricato che rendeva possibile un pascolo spontaneo), al limitare delle siepi e dei viali, affidando alle loro capacità acustiche ed olfattive straordinarie il compito di localizzare al buio la presenza di predatori (anche, e non raramente, umani) attirati dagli animali da cortile che nella masseria erano allevati (galline, conigli, oche, faraone, piccioni, pavoni, anatre, tacchini). Si trattava di volpi, faine, donnole, puzzole, “lupi cervieri” (linci), serpenti (per lo più grossi “cervoni” ghiotti di uova) e gatti selvatici. Nonostante la sua piccola taglia, particolarmente coraggiosa e temeraria era la donnola che però, pur essendo in grado di difendersi con estrema audacia da predatori di maggiori dimensioni, nulla poteva contro i mastini o contro i cani corso. In questi ultimi, particolare furia scatenava l’avvistamento della volpe che, quando malauguratamente per lei non riusciva con il suo astuto istinto ad eluderne la sorveglianza, veniva puntualmente sbranata. Il baccano suscitato dalle lotte che ne scaturivano interrompeva il riposo necessario al massaro e agli altri lavoranti per poter affrontare le nuove fatiche del giorno dopo; ciononostante la loro soddisfazione e la loro gratitudine verso i cani era totale: la masseria era in “buone fauci” e poteva dormire tranquilla!
(Ed. Arti Grafiche La Regione – 1996) © dott. Flavio Bruno